Edvard Munch, "Al capezzale di un defunto", 1893

Decíamos ayer: COME IMPARARE A ESSERE MORTO


L’articolo che segue, sulla morte, di Héctor Abad Faciolince, e sulla morte di Héctor Abad Faciolince –con e senza virgola dopo il soggetto- è un regalo di compleanno per Héctor Abad Faciolince, pensato con allegra crudeltà dalla traduttrice di Una poesia in tasca, l’ultimo libro di Héctor Abad Faciolince pubblicato in Italia, lo scorso febbraio, da Edizioni Lindau –perfidamente complici in questo omaggio allo scrittore, vivente, vegetissimo-.

Tra il serio e il faceto, ai miei studenti di traduzione letteraria dallo spagnolo dico sempre che il miglior autore che può capitarti di tradurre è l’autore morto. E se non è morto, il traduttore dovrebbe sempre fingere che lo fosse, per una serie di motivi pratici che senz’altro gli agevoleranno il lavoro: non tutti gli scrittori hanno piacere di essere coinvolti nella traduzione, quindi meglio imparare subito a sbrogliarsela da soli; a volte lo scrittore ha qualche vaga conoscenza della lingua d’arrivo, e questa è un’immane tragedia, perché vorrà a tutti i costi usarla per intervenire, in modo non sempre mirato –eufemismo-, e maledirai ogni singola riga del manoscritto; altre volte lo scrittore ha un’ottima conoscenza della lingua di traduzione, e allora non solo opinerà apertamente sulla traduzione, ma riscriverà di continuo anche l’originale, e tu non saprai mai qual è il testo definitivo, almeno non fino a quando non arriveranno i servizi sanitari a farti il TSO che hai implorato.

Infine, sia che l’autore conosca sia che non conosca la lingua di traduzione, se è vivo, e lo incontri, e arrivi a voler bene alla persona, ad affezionarti a lui tanto quanto alle sue parole, non c’è sofferenza più indicibile, per un traduttore, di vederlo “smettere di rimanere vivo”. Ed è da questo dolore che voglio sempre mettere al riparo i miei studenti, soprattutto oggi, che da quattro anni ho perso il poeta Pierluigi Cappello, uno di quei miei scrittori.

Alla casistica, però, sfuggirà sempre Héctor Abad Faciolince, che quest’anno mi ha allenata a una nuova modalità: lo scrittore che prova a essere vivo e a essere morto, e lo racconta qui.

Insieme a Lindau abbiamo scelto di tradurre proprio questo pezzo, per fargli gli auguri di buon compleanno –quasi un primo compleanno- oggi, 1 ottobre 2021.

Buona lettura. Buona vita, come un vino in bocca.

Monica Rita Bedana

COME IMPARARE A ESSERE MORTO

Di Héctor Abad Faciolince

 

Molti anni fa –quasi quaranta, ormai- tradussi un racconto di Italo Calvino dallo stesso titolo di questo mio racconto. Il protagonista, il signor Palomar, “decide che d’ora in poi farà come se fosse morto per vedere come va il mondo senza di lui”. Ben presto si accorge che non cambia nulla: con lui o senza di lui, tutto continua ad accadere.

Può sembrarci triste o banale, invece è un grande sollievo. “Tutti i problemi”, per esempio, “sono problemi degli altri, fatti loro”, e il morto non sente alcun dovere morale di adoperarsi per qualcosa, perché nella sua condizione di morto ha diritto al silenzio e all’inattività. Continuate pure ad ammazzarvi tra voi come stile di vita, lo so che vi piace, tanto io sono morto.

Fino a pochi anni fa, per stabilire se una persona fosse viva o morta, i medici osservavano se il corpo respirasse, e auscultavano il cuore per verificare se battesse ancora. Adesso, per agevolare il trapianto di organi, si certifica la morte quando cessa un certo tipo di attività cerebrale. Al giorno d’oggi è possibile essere dichiarati in vita anche quando il cuore e il respiro rimangono immobili, così come si può essere definiti cadaveri a dispetto del nostro respirare, delle nostre palpitazioni.

Qualche settimana fa, con il proponimento di continuare a vivere, ma anche con l’obiettivo di imparare a essere morto, mi sono sottoposto a un intervento chirurgico durante il quale il mio cuore è rimasto immobile diverse ore e i miei polmoni paralizzati e privi d’aria per lo stesso periodo di tempo. Anche il mio corpo, fatto raffreddare meccanicamente, aveva la stessa temperatura di un morto stecchito. Magari in quelle ore era presente una qualche forma di attività cerebrale. Se così fosse, non era comunque il tipo di attività mentale che produce consapevolezza, pensiero o memoria. Ciò che rubrico, a posteriori, di quell’esperienza, è il niente assoluto, privo di qualsiasi percezione -anche minima- del trascorrere del tempo, privo di gioia o tristezza, piacere o dolore.

Rimanere morto per qualche ora, senza respirare e col cuore in situazione di stallo, senza coscienza di sé né memoria, è un’esperienza strana (un’esperienza vuota, di cui non rimane registro e quasi non è esperienza, quindi), possibile soltanto grazie alla scienza e alla tecnica. È anche l’apprendimento diretto più rigoroso, che io sappia, di ciò che è la morte: niente, niente del tutto, nemmeno indifferenza, nulla.

Nel corso della mia breve morte so che gli altri hanno continuato a vivere e a morire. Mangiavano, ridevano, piangevano, discutevano di politica e di religione, si infervoravano parlando dell’esistenza dell’anima, cantavano sotto la pioggia, soffrivano per questioni di soldi o perché avevano un dolore al gomito sinistro.

Prima di immergermi nell’esperienza diretta della morte, ho scritto l’ultimo capitolo di un romanzo che ancora non ho portato a termine, ma di cui volevo lasciare scritto il finale, dove il protagonista, un prete buono, durante un intervento a cuore aperto smette di restare vivo. La sua morte, nel romanzo, lui non la sperimenta: la sua morte è ciò che provano i suoi amici vivi quando lui muore.

Non appena rinacqui dalla mia morte di poche ore Juan, l’anestesista, un mio amico, mi fece una domanda che non ricordo, “come ti senti?”e, a quanto pare, la risposta fu la parola “vivo”, e neanche quella ricordo. Camillo, il chirurgo, poco prima mi aveva chiesto come stavo, e secondo lui gli ho dato la stessa risposta, che non ricordo: “vivo”. Credo che dopo aver imparato a essere morto, il mio apprendimento più grande, nel fare ritorno alla vita, sia stato quello della fragilità della membrana, dell’esigua soglia, dell’aria invisibile che separa la vita dalla morte. 

E si è accentuato un dubbio che dilaga dentro me ogni notte quando vado a dormire, come dice uno dei migliori e più famosi versi colombiani, di Jorge Gaitán Durán: “E se domani mi sveglio e so di essere vivo”. Adesso credo di poter dire, dato che sento e penso e mangio e piango e rido e sto scrivendo, che devo proprio essere vivo. Ad ogni modo ci sono momenti in cui non ne sono del tutto sicuro. Quando uno impara a essere morto, disimpara a essere vivo. O, per meglio dire, impara a vivere, sempre, come il poeta: “Ho guadagnato un giorno; ho tenuto il tempo/in bocca come un vino”. 

 

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